Una nuova idea di casa minima

(Il pezzo riportato, scritto da Francesco Ruffa, è la prima metà di un articolo più ampio firmato insieme a Luciano Crespi)

All’origine di ogni ondata d’interesse verso la casa minima vi è sempre, oggi come in passato, una contingenza economica che causa un’incoerenza tra domanda e offerta. E vi è una necessità sociale, quella di realizzare al risparmio una casa per chi non è in grado di affrontare il mercato immobiliare di riferimento.
Nella seconda metà del XIX secolo, e poi in seconda battuta tra le due guerre mondiali,  l’industrializzazione e il conseguente fenomeno di urbanizzazione creano uno scarto drammatico tra il reddito della nuova classe operaia e un’offerta costituita in prevalenza da case di grandi dimensioni. Se da un lato il patrimonio abitativo risponde ancora ai canoni della famiglia patriarcale, dall’altro le città europee si popolano di modelli familiari nuovi, in primis la piccola famiglia nucleare e marginalmente un largo numero di donne nubili e di immigrati soli.
Del 1928 sono i lavori di Alexander Klein[1], che sulla scia del movimento razionalista tenta di applicare un rigore scientifico alla progettazione di interni abitativi salubri ed economici.
Del 1929 è il secondo CIAM, tenuto a Francoforte, che pone la casa minima al centro del dibattito. I modernisti sono interessati ad attribuire un ruolo sociale all’alloggio, pensato sia nella dimensione individuale sia in funzione di un inserimento nel progetto collettivo e urbano. Da questa accezione ‘oggettiva’, per la quale l’individuo è visto come un portatore di processi fisiologici pressoché costanti, deriva una cultura progettuale convinta di poter realizzare e replicare in serie il benessere sufficiente dell’individuo dentro ideali di risparmio di suolo e di razionalizzazione scientifica della forma.
Nella prima metà del Novecento, dunque, l’alloggio minimo è inteso come risposta ai bisogni biologici di una domanda considerata omogenea, proveniente da un blocco sociale solido e ben identificato.
Oggi il problema iniziale è simile (l’incoerenza tra domanda e offerta) e al posto della famiglia operaia di un secolo fa vi è l’infinita schiera di nuovi abitanti (anziani soli, genitori separati, famiglie monogenitoriali, studenti fuori sede, immigrati extracomunitari, ecc.) che non può accedere alla casa ereditata da quella famiglia operaia che oggi chiamiamo ‘tradizionale’.
Da un altro punto di vista, però, il panorama attuale è diverso. L’alloggio minimo è ora interpretato come risposta a desideri esistenziali che vanno oltre il comfort ‘muscolare’ e che provengono dalla domanda estremamente frammentata di una società fluida e priva di classi.
Se, dunque, l’existenzminimum razionalista punta a un compromesso efficace tra basso costo e svolgimento di funzioni ‘meccaniche’ attribuite alla famiglia operaia (dormire, mangiare, lavarsi, ecc.), l’ambiente minimo contemporaneo cerca un compromesso tra basso costo ed esigenze molto eterogenee.
Pertanto, cambia non solo la struttura familiare (dalla famiglia operaia a modelli multiformi) ma anche il modo con cui la intendiamo legata all’ambiente.
Vi è un’alterazione non solo in quel corpo diverso e camaleontico che s’inoltra nella casa contemporanea ma anche nel nostro modo di guardarlo. Abbandoniamo la visione del corpo precisamente misurabile che appare nel Modulor di Le Corbusier (1948) – il corpo come unità di misura dello spazio -, e accogliamo l’emergere prepotente della persona, in tutta la sua complessità, per la quale il concetto di spazio misurabile perde senso, teso tra il corpo stesso e l’infinito.
Un secolo fa, l’attività funzionale del corpo umano era unità di riferimento per uno spazio a sua volta quantitativo. Oggi il corpo è inteso come antenna sensoriale che mette in relazione la sfera emozionale della persona con un ambiente giudicato in termini qualitativi, nella sua integrità, al di là dei singoli elementi sintattici di cui è costituito (dimensioni, materiali, colori, ecc.).
Come cambia, dunque il concetto di minimo? In relazione a cosa un ambiente deve possedere il minimo costo?
La cultura del progetto designa con l’aggettivo “minimo” quell’elemento che, rispetto a eventuali alternative, è il più ridotto possibile per realizzare un determinato fine.
Se nella prima metà del secolo scorso l’obiettivo era quello di ottenere il benessere attraverso una codificata quantità di elementi spaziali (e dunque l’obiettivo diretto erano gli elementi spaziali), oggi il progetto, attraverso la costruzione soggettiva di un ambiente polisensoriale, insegue in modo diretto un piacere psicofisico, sociale e riflessivo. In altre parole, le dimensioni e le caratteristiche distributive di un alloggio costituiscono un elemento importante ma non esclusivo del progetto. La soglia minima che dobbiamo tenere in mente non è data da un valore dimensionale ma dalla qualità globale del progetto necessaria per ottenere il benessere complessivo del suo abitante. La dimensione è solo un qualcosa che, insieme ad altri elementi, concorre a questa qualità.
Da questo ragionamento, che rifiuta l’idea di una soglia dimensionale, l’espressione “housing sottosoglia” ne esce un po’ indebolita.
In un certo senso, non esiste un ambiente sotto soglia. Tutt’al più, quest’espressione può essere assegnata a un progetto che, nel suo insieme, non riesca a soddisfare in modo efficace obiettivi realistici assegnatigli – obiettivi estremamente mutevoli, data la frammentazione socio-demografica e culturale degli abitanti contemporanei.
Il mondo dell’arte e della sperimentazione esplora in modo interessante questa nuova tensione spaziale tra corpo e infinito. Immagina vere e proprie case-abito i cui confini coincidano col corpo stesso – ad esempio la serie Refuge Wear (1993-2005) di Lucy Orta – oppure concepisce case-letti che forzino alla posizione del riposo tra ostilità spaziale e stimolo sensoriale – ad esempio le capsule per dormire di Atelier van Lieshout (Mini Capsule Side Entrance e Maxi Capsule Luxus, 2002).
A un livello diverso, osserviamo unità abitative pensate per consentire movimenti ‘calibrati’ tra funzioni densificate, in spazi di sopravvivenza privi di alcuna ridondanza visuale. La leggendaria Nakagin Capsule Tower di Kurokawa (Tokyo, 1970-1972) ispira ancora oggi progetti destinati ai nomadi contemporanei (ad esempio la Micro Compact Home di Richard Horden, 2001-2005).
Dunque si rifiuta un dogma che sostenga una minimizzazione quantitativa valida una volta per tutte, effettuata in relazione a un benessere psicofisico definito univocamente dalle scienze mediche e psicologiche. La visione contemporanea cambia punto di riferimento, passando dall’obiettivo di una razionalizzazione distributiva predefinita a quello di una qualità più sfaccettata, legata non per forza allo spazio ma, in modo più olistico, alla coerenza tra ambiente progettato e immaginario del fruitore.
Questo cambiamento culturale si ripercuote nel progetto dell’abitare in generale, che ormai sente maturo il momento di sradicare anche le eredità più forti del movimento moderno.
Vittima illustre, ad esempio, è la cucina di Francoforte progettata negli anni ’20 da Margarete Schütte-Lihotzky. Ci basta osservare i concorsi indetti nell’ultimo anno sulla rielaborazione di questo tema progettuale: il concorso La vita in cucina: tradizione e innovazione (2013), organizzato a Saluzzo; Next Kitchen Design, organizzato da MAGA (Associazione Giovani Architetti della Provincia di Milano) in occasione di EuroCucina 2014; RE-Thinking Kitchen 2013, organizzato da Gerratana srl. Per non citare chi, facendo letteralmente a pezzi la cucina del passato, diede il via alla propria fortuna: nel 1997, Giulio Cappellini intuì il talento dei fratelli Bouroullec vedendo la loro Disintegrated Kitchen esposta al Salon du Meuble di Parigi.

Dal punto di vista di un progettista che si addentra nel tema proposto – alloggi di piccole dimensioni da destinare a famiglie mono-genitoriali per un semestre -, l’obiettivo non è più quello teorico di difendere una certa quantità di spazio dentro una corsa al ribasso (approccio che, in uno spazio esistente, si escluderebbe da solo) ma quello di inseguire le soluzioni migliori per offrire una buona qualità di vita al maggior numero possibile di persone. “Dall’existenz minimum all’existenz maximum”[2], come ha scritto Alessandro Mendini.
Si badi al plurale: soluzioni migliori. Perché se compiamo lo scarto laterale di cui detto, ovvero consideriamo gli abitanti non come replicanti di processi fisiologici sempre uguali ma come individui dalle condizioni esistenziali più multiformi, prendiamo atto che non esiste una qualità valida per tutti e che solo la varietà può consentire di scegliere tra ambienti unici e attraenti, in cui la riduzione di spazio non corrisponda necessariamente a maggiore miseria.
Su questa riflessione teorica interviene la pratica del design, che incrementa il valore semantico dei luoghi non modificando i confini architettonici ma utilizzando dispositivi d’arredo e di allestimento. Ad esempio: offre opportunità di coinvolgimento post-occupazione del fruitore; di esaltazione delle attività quotidiane (come il gioco); di distinzione delle particolarità individuali (come ambienti a misura di bambino); di flessibilità favorevole per accogliere ospiti; di contributo attivo alla sostenibilità ambientale; di luogo come deposito temporaneo della memoria personale e collettiva; e così via.

[1] La figura di Klein è ingenerosamente dimenticata dalla storiografia contemporanea – nel momento in cui scriviamo, neanche Wikipedia gli concede spazio (lo troviamo solo nella versione tedesca). Ma certo il suo contributo allo studio degli interni abitativi lo pone come un caposaldo al pari dei più famosi Walter Gropius, Bruno Taut, Marti Wagner e Le Corbusier.
Cfr. Bevilacqua, M.G. (2011). Alexander Klein and the Existenzminimum: A ‘Scientific’ Approach to Design Techniques. Nexus Network Journal, 13(2), 297-313. Paper presentato a Nexus 2010: Relationships Between Architecture and Mathematics, Porto, 13-15 giugno 2010. Doi: 10.1007/s00004-011-0080-6.

[2] Mendini, A. (a cura di). (1990). Existenz maximum: giovani presenze del design fra il mistico e lo spaziale. Firenze: Tipolito Press 80, p. 5.

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Info

Crespi, L., & Ruffa, F. (2014). Da spazio nasce spazio (Engl. tr.: One space leads to another). In F. Cognetti (Ed.), Vuoti a rendere. Progetti per la reinterpretazione e il riuso degli spazi nell’edilizia pubblica (pp. 63-78). Milan, Italy: Fondazione Politecnico di Milano.
ISBN: 978-88-909641-2-1
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