La rappresentazione dell’interno come visione del mondo

(Articolo tratto dal libro Verso l’era post-digitale. Disegnare il progetto, tra design e architettura)

È già stato detto[1] che il design degli interni, dal momento che si pone come identità sempre più autonoma rispetto a quella dell’architettura, apre una questione inedita sui suoi sistemi di rappresentazione. E’ specifico della linguistica attribuire ai segni significati riconducibili alle due aree della denotazione e della connotazione. La prima area raggruppa tutti quei significati univoci che si palesano come mimesi della realtà. La seconda, invece, consiste in quella dimensione del segno relativa al codice con cui l’autore compone la rappresentazione e con cui il fruitore la interpreta, in riferimento a un background culturale imprescindibile, non universale.
La rappresentazione, insomma, è fatta di un “cosa” e di un “come”. L’uno e l’altro ne determinano la capacità mimetica da un lato e la ricchezza culturale dall’altro.

Il “cosa”

Dal punto di vista del “cosa”, la rappresentazione di un progetto d’interni si trova di fronte alla sfida di restituire un ampissimo ventaglio di fattori che costituiscono l’intera sfera dell’esperienza ambientale. Per capire lo scarto tra l’esperienza intesa dal design degli interni e il focus percettivo della disciplina architettonica tradizionale, possiamo ricorrere alle parole di Juhani Pallasmaa, architetto finlandese che, scrive Steven Holl, “pratica quell’architettura dei sensi che sfugge all’analisi, le cui proprietà fenomeniche condensano i suoi scritti verso una filosofia dell’architettura”[2]. Pallasmaa assume una posizione critica verso quell’architettura contemporanea così sterilmente visiva e nel suo libro Gli occhi della pelle riconosce il compito dell’arte e dell’architettura e, aggiungiamo noi, del design degli interni, nel “ricostruire l’esperienza di un mondo interiore indifferenziato, in cui noi non siamo meri spettatori, poiché apparteniamo indissolubilmente ad esso. Nelle opere artistiche la comprensione esistenziale sorge dal nostro reale incontro col mondo e col nostro essere-nel-mondo – non è concettualizzata o intellettualizzata”[3]. Vengono inoltre indagate le origini di quello che sembra essere, da Leon Battista Alberti in poi, il dominio della vista, il solo senso a cui guarderebbe una diffusa architettura contemporanea, disinteressata agli altri sensi capaci di fornire all’uomo l’esperienza di essere-nel-mondo. L’occhio dominante si alternerebbe così tra l’essere narcisistico e nichilista: il primo orientato a un’architettura “come mezzo di autoespressione e come un gioco intellettuale-artistico distaccato dalle essenziali connessioni mentali e sociali, [il secondo proiettato verso] il distacco e l’alienazione sensoriale e mentale”[4]. In entrambi i casi si assisterebbe a una riduzione della capacità di provare empatia e partecipazione col mondo.
In definitiva, un design degli interni che tenta di ricostruire l’esperienza di un mondo interiore indifferenziato avrebbe bisogno di forme di rappresentazione capaci di forzare i limiti della visibilità. Servirebbe una rappresentazione capace di produrre odori, un po’ come accade, forse in modo lievemente (e volutamente?) naif, nel padiglione danese allestito quest’anno alla Biennale di Architettura di Venezia e dedicato al futuro della Groenlandia. Dopo essere accolti nella ricostruzione di un interno artico, usciamo in un ipotetico en plein air dove, di fronte alle proiezioni murali di paesaggi ghiacciati, ci investe un acre odore di pesce emanato da stoccafisso appeso in un angolo ad essiccare. Da quell’allestimento emerge la ricerca di un’unità dei sensi che sempre più si fa spazio nel design degli interni. L’esplorazione sinestetica sempre più padrona del progetto sente il bisogno di una rappresentazione piena che oggi le è in parte negata. In attesa che venga inventata una tecnica di rappresentazione capace di imitare le infinite sfumature sensoriali di un ambiente, una possibile risposta sembra risiedere in una interpretazione rizomatica nell’uso degli strumenti rappresentativi, capaci di interagire senza gerarchie e di integrarsi l’un l’altro.
Le maquettes di studio, digitali oppure tradizionali, possiedono una proprietà tattile che consente una più raffinata esplorazione degli aspetti strutturali dello spazio. Forme di rappresentazione proiettive (singole immagini o sequenze video), invece, sembrano più indicate per una precisa investigazione degli aspetti figurativi. E’ certamente vero che il limite disciplinare tra i vari strumenti non è così rigido. Le maquettes, se concepite con attenzione rispetto alle caratteristiche dimensionali e con minuziosi dettagli rispetto alle qualità allestitive e materiali dello spazio, possono diventare un utile strumento per l’indagine figurativa (ancor più se con l’ausilio della macchina fotografica). Allo stesso modo un abile disegnatore potrebbe servirsi di schizzi prospettici per studiare questioni strutturali dell’ambiente progettato.
Tuttavia è importante considerare che i due ordini di strumenti coesistono per due scopi investigativi distinti, che corrispondono a due differenti dimensioni fruitive dell’ambiente costruito.
Walter Benjamin[5] parla di convivenza nell’architettura tra fruizione tattile e ottica. “Le costruzioni”, afferma, “vengono accolte in un duplice modo: attraverso l’uso e attraverso la percezione. O, per meglio dire: in modo tattile e in modo ottico. […] La fruizione tattile non avviene tanto sul piano dell’attenzione quanto su quello dell’abitudine. Nei confronti di quest’ultima determina ampiamente perfino la ricezione ottica. Anch’essa, in sé, ha luogo molto meno in un’attenta osservazione che non in sguardi occasionali”[6]. Benjamin chiarisce che nel corpo dell’opera architettonica convivono tattilità e visibilità e l’una contribuisce alla realizzazione dell’altra.
Attraverso l’idea di un’unità dei sensi che consentirebbe una piena fruizione dell’opera, Benjamin supera l’antica diatriba tra “visibilità” e “tattilità” con cui la filosofia interroga l’opera d’arte dal Settecento in poi, da quando una visione anti-classicista si oppone al carattere “narrativo” della forma[7]. In arte, il dilemma della restituzione di una completa unità dei sensi ha cercato un teso equilibrio in uno strumento che ponesse in movimento la funzione aptica della vista (scultura secondo Herder, colore secondo Deleuze)[8]. In architettura, l’unità dei sensi, ci spiega Benjamin, è intrinseca. L’estetica dell’architettura entra dunque in modo diffuso nella quotidianità, nella vita della massa. Sembra non esservi più alcuna antitesi tra forma e uso e, anzi, proprio il bisogno e l’uso assumono il ruolo di amplificare la ricezione ottica e di conseguenza l’esperienza estetica: “I compiti che in epoche di trapasso storico vengono posti all’apparato percettivo umano, non devono essere assolti per via della mera ottica, cioè della contemplazione, [ma] in base all’addestramento della fruizione tattile, tramite l’abitudine”[9].
Il superamento teorico del dualismo tra tattilità e visibilità, che nel design degli interni contemporaneo si allarga ad un’ancor più ampia unità sinestetica, sostiene ulteriormente la complementarietà di strumenti progettuali che esplorino gli aspetti strutturali, quelli figurativi e, possiamo aggiungere oggi, tutti gli altri elementi sensoriali dell’opera ambientale. Non vi è una risposta definitiva su quali siano questi strumenti. Le tecniche cambiano a una velocità maggiore di quanto sia possibile metabolizzarle e cambieranno ancora. Ma ciò che non può cambiare è l’obiettivo di una rappresentazione multidirezionale dell’opera che, attraverso più strumenti tradizionali o digitali, deve poter essere indagata e comunicata in tutti i sensi della sua fruibilità.

Il “come”

Si potrebbe dire che proprio la densità connotativa rivela la ricchezza culturale di una rappresentazione, capace di andare al di là del “cosa” copiato dal mondo reale e accompagnarlo ad un “come” che rilevi la sua importanza in relazione a noi stessi. Al di là di ciò che imita oggetti reali, la rappresentazione può dunque arricchirsi di significati legati al codice culturale. Può portare con sé un bagaglio di elementi conoscitivi ed emozionali che vanno al di là dell’oggetto in sé.
Molti autori[10] hanno provato ad analizzare le fasi del processo di visione di un’immagine. Seppur con categorie e definizioni diverse, tutti tendono a riconoscere nel processo un graduale passaggio dalla dimensione oggettiva dell’immagine (il “cosa”) a un’interpretazione personale da parte del soggetto (il “come”). Quest’ultimo, dopo aver inglobato l’immagine al suo stato primitivo, ovvero nelle sue linee, nei suoi colori, nelle sue dimensioni, passa successivamente a una ri-costruzione della stessa sulla base della propria esperienza personale, assegnandole attributi, riferimenti, sentimenti, giudizi e così via. Il dialogo tra percezione e pensiero è una questione inevitabile, intrinseca a qualsiasi processo di rappresentazione e visione. E questo dialogo è valido sia per la rappresentazione documentale sia per quella progettuale. Resa da un’immagine anticipatrice, la rappresentazione progettuale restituisce una realtà che ancora non c’è, proiettata nel futuro e legata alle azioni necessarie per renderla possibile. Che la sua funzione sia di ricerca oppure sia di comunicazione, la sfera dei caratteri connotativi e dei loro significati assume un’importanza fondamentale.
In riferimento a ciò, sembrano cruciali due questioni: una legata alla densità dei significati e l’altra alla loro coerenza. In precedenza si è prospettato un’ipotetica puntualità sinestetica di un sistema rappresentativo capace di restituire davvero la visibilità, la tattilità, il suono, l’odore e quanto più possibile della realtà progettata. Eppure un’ampia gamma di messaggi pluri-sensoriali, emozionali, concettuali può essere evocata, seppure in modo limitato, dalla nostra memoria collettiva, dal nostro codice culturale, che può associare a certe immagini altre specifiche categorie non visive. A una maggiore densità di significati evocati attraverso un limitato “cosa”, corrisponde una superiore ricchezza culturale della rappresentazione e certamente, a sua volta, un più raffinato progetto ambientale. Sì, un migliore progetto. Perché la densità di significati di una rappresentazione progettuale e la coerenza tra le rappresentazioni di uno stesso autore testimoniano la presenza di una visione teorica capace di generare un collaudato sistema di messaggi.
Per ciò che riguarda la coerenza  tra sistema di rappresentazione e sistema dei valori, è ancora di grande attualità  il contributo di Erwin Panofsky. Per il quale la vera innovazione della prospettiva centrale rinascimentale è costituita dalla sua capacità di rappresentare un superamento della spazialità di Giotto e di Duccio, “che corrispondeva alle concezioni di transizione dell’alta scolastica”[11], attraverso l’introduzione di uno spazio “infinitamente esteso e organizzato attorno a un punto di vista scelto a piacere”[12]. Con ciò veniva sancita la rottura nei confronti della visione aristotelica del mondo e aperta la strada destinata a introdurre una nuova concezione del mondo “deteologizzata”, fondata su una nozione di infinità “non soltanto prefigurata in Dio ma realizzata di fatto nella realtà empirica”[13]. Si conclude  un lungo percorso iniziato appunto da Giotto e Duccio, che avevano avviato il superamento della visione spaziale medievale e introdotta “un’autentica rivoluzione nella valutazione formale della superficie pittorica: essa non è più la parete o la tavola su cui vengono disposte le forme delle singole cose e figure, ma è tornata a essere il piano trasparente attraverso il quale noi possiamo pensare di guardare in uno spazio aperto per quanto circoscritto in tutte le direzioni; un ‘piano figurativo’ nel senso pregnante della parola”[14]. Tutto ciò mostrerebbe come la prospettiva avesse cessato di costituire un problema tecnico-matematico per diventare soprattutto un problema artistico in stretta relazione con la questione della concezione del mondo e dei valori da essa espressi. Ad un certo punto del suo libro Panofsky introduce la differenza tra il modo di interpretare la prospettiva da parte degli italiani e quello dei pittori del nord Europa. Viene fatto l’’esempio del San Gerolamo dipinto sia da Antonello da Messina sia da Dürer. Mentre il primo rappresenta lo studiolo come se fosse visto dall’esterno e facendo coincidere lo spazio con la superficie del quadro, con ciò introducendo una distanza nei confronti dell’osservatore, il secondo fa quasi entrare l’osservatore nello spazio del quadro stesso, anche grazie alla posizione eccentrica del punto di vista, determinando in tal modo un effetto di “intimità”. Tuttavia “la concezione prospettica, sia che venga valutata e interpretata nel senso della razionalità e dell’obiettivismo, sia piuttosto nel senso della casualità e del soggettivismo, si fonda sulla volontà di costruire lo spazio figurativo (pur astraendo dal ‘dato’ psicofisiologico) a partire dagli elementi e secondo lo schema dello spazio visivo empirico”[15].
Insomma ciò che emerge in modo nitido in questo testo è la stretta relazione esistente tra prospettiva e umanesimo rinascimentale, tra il modo di rappresentare lo spazio e la concezione stessa del mondo. Parallelamente, come ci fa notare Luigi Cocchiarella[16], sarebbe difficile immaginare le proiezioni ortogonali al di fuori dell’Illuminismo, oppure le proiezioni assonometriche in posizione disgiunta dalla cultura positivista del XIX secolo. E ciò perché “«le forme di rappresentazione» non si esauriscono nei meri metodi esecutivi del disegno, ma si legano indissolubilmente alle sensibilità culturali in seno alle quali si sono sviluppate e vengono impiegate”[17].
Anche se l’indagine di Panofsky si concentra sulla rappresentazione nell’ambito della pittura, non manca di avere un interesse particolare anche nei confronti di una riflessione sul tema della rappresentazione del progetto. Ciò che oggi appare come un problema disciplinare, vale a dire lo scarto tra il potenziale costituito, nei modi di rappresentazione del progetto, dalle tecnologie digitali e la loro incapacità di restituire le differenze degli stili di pensiero del progettista, in realtà è il riflesso di un problema ben più generale e profondo. Rappresentato dalla mancanza di un sistema culturale di riferimento, a seguito dell’esaurirsi di quello fondato sul dominio della tecnologia inteso come “potere di disposizione della tecnica”[18] e che ha prodotto l’affermazione in tutto l’Occidente del pensiero calcolante, istituendo una sorta di ”impero del razionale”[19]. Eppure in molti ambiti del pensiero e della cultura non mancano i segnali che testimoniano il fatto che ci si trovi di fronte ad una svolta della storia, destinata ad introdurre cambiamenti probabilmente della stessa portata di quelli che, per Panofsky, hanno dischiuso per l’arte religiosa una regione completamente nuova.  Basti pensare, solo per fare alcuni esempi, alle riflessioni avvenute all’interno del mondo scientifico, che hanno portato a sostituire ad una scienza predittiva e sperimentale una scienza qualitativa ed ermeneutica, rinunciando ad un programma di dominio integrale sulle realtà a cui è applicata a favore di modelli di razionalità debole,fondati sulla reversibilità dei processi e sulla possibilità di ammettere l’irruzione del caso[20]. Oppure ai contributi in filosofia di Paul Virilio, sulla dromologia e i pericoli della tecnologia contemporanea connessi all’incidente come fenomeno inopinato[21] e di Jean-Luc Nancy sulla città come “luogo in cui ha luogo qualcosa di diverso dal luogo” e in cui l’uomo abita en passant[22].  In antropologia di Marc Augé, sulla comparsa di un nuovo paradosso rappresentato da una diversa percezione dello spazio-tempo destinato a sancire la perennità del presente[23]. In economia di Serge Latouche sul tempo della décroissence, come riscoperta  della società della frugalità per scelta, al fine di “imparare nuovamente ad abitare il mondo e, quindi, affrancarsi dalla dipendenza dal lavoro per ritrovare la lentezza, riscoprire i sapori della vita legati ai territori, alla prossimità e l prossimo”[24] o di Gilles Finchelstein, sulla dittatura dell’urgenza e la necessità di opporvisi attraverso la riscoperta della lenteur e la pratica del Perdre du temps[25]. Frammenti di una nuova concezione del mondo che aprono sguardi sullo spazio che abitiamo e sulle sue diverse connotazioni. Uno spazio indicibile, aleatorio, reversibile, “ineffabile”, profondo,”deformato”[26], privo di confini stabili, in cui privato e pubblico coesistono e l’interno diventa come un esterno, uno spazio che richiede alla cultura del progetto e alle scuole che contribuiscono a formarla una riflessione adeguata sui suoi modi di rappresentazione. Non sembra un compito facile, se si pensa come già Bruno Zevi, nel suo memorabile Saper vedere l’architettura[27], avverta che il ”problema della rappresentazione dello spazio, lungi dall’essere risolto, non è nemmeno impostato”.

[1] Cfr. Luciano Crespi, Spazio e disegno, in  Michela Rossi e altri, Il disegno come ricerca. Strumenti grafici e modelli rappresentativi per il progetto, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2012

[2] Steven Holl, Prefazione: Ghiaccio sottile, in Juhani Pallasmaa, Gli occhi della pelle. L’architettura e i sensi, Jaka Book, Milano 2007, p. 8 (ed. originale 2005)

[3] Juhani Pallasmaa, Gli occhi della pelle. L’architettura e i sensi, Jaka Book, Milano 2007, p. 36 (ed. originale 2005)

[4] Ibidem, pp. 32-33

[5] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2011 (ed. originale 1936)

[6] Ibidem, pp. 34-35.

[7] Cfr. Elio Franzini, Art and body. A philosophical perspective, Leitmotiv – Motivi di estetica e di filosofia nelle arti, n.0/2010, 27-49.

[8] Ivi

[9] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 35.

[10] Cfr. Luigi Cocchiarella. Fra Disegno e Design. Temi, forme, codici, esperienze, CittàStudi, Novara 2009

[11] Erwin Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”, Abscondita, Milano 2007, p.45 (ed. originale 1927)

[12] Ivi

[13] Ibidem, p.46

[14] Ibidem, p.37

[15] Ibidem, p.53

[16] Cfr. Luigi Cocchiarella. Fra Disegno e Design. Temi, forme, codici, esperienze, cit., p. 77

[17] Ivi

[18] Cfr. Jurgen Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Roma-Bari 1978

[19] Cfr. Serge Latouche, La sfida di minerva, Bollati Boringhieri, Torino 2000

[20] Cfr. Gianluca Bocchi , Mauro Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano 2007

[21] Cfr. Paul Virilio, Città panico, Raffaello Cortina, Milano 2004

[22] Cfr. Jean-Luc Nancy, la città lontana, Ombre corte, verona 2002

[23] Cfr. Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro?, elèuthera, Milano 2009

[24] Cfr. Serge Latouche, Didier Harpagès, Il tempo della decrescita, elèuthera, Milano 2011

[25] Cfr. Gilles Finchelstein, La dicature de l’urgence, Fayard, Paris 2011

[26] Cfr. Antony Vidler, La deformazione dello spazio, postmedia books, Milano 2009

[27] Cfr. Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino, prima ed. “Saggi”1948

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Info

Crespi, L., & Ruffa, F. (2013). La rappresentazione dell’interno come visione del mondo (Engl. tr.: The representation of interior as a world view). In VVAA, Verso l’era post-digitale. Disegnare il progetto, tra design e architettura. Paper presented at symposium edited by UdRD Design Representation, Politecnico di Milano, Milan, 23 November 2012 (pp. 17-23). Santarcangelo di Romagna, Italy: Maggioli.
ISBN: 978-88-387-6192-2
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