The Value of Design Research - 11th International Conference of the European Academy of Design

Connecting Objects and Cultural Trends: A Pragmatist Approach for Sensemaking in Furniture Design

/Francesco Ruffa

Questo articolo eredita i contenuti della mia tesi di dottorato e affronta la fase strategica del design dell’arredo, in particolare quella del sensemaking. Quest’ultimo è un processo abduttivo, che questo paper considera limitatamente come l’interpretazione del designer sugli oggetti appartenenti alla sua sfera di competenza. La ricerca si è sviluppata con un’evoluzione circolare, essenzialmente attraverso tre macro-attività: 1. analisi empirica del settore dell’arredo e dei relativi trend culturali; 2. ricerca di gruppi d’arredo semanticamente coerenti; 3. costruzione di una teoria.

Il risultato è una metodologia capace di guidare e visualizzare il sensemaking nel processo di progettazione di un arredo. Partendo dalla semiotica di Peirce, questo studio compone una cornice teorica identificando quattro tipi di connessioni arredo-referente e quattro corrispondenti intenzioni semantiche. In seguito, guida la creazione di una mappa concettuale che rappresenta l’organizzazione e l’interpretazione mentale del materiale iconografico raccolto. La mappatura concettuale genera gruppi semanticamente coerenti di oggetti, che possiamo vedere come schemi progettuali che dirigono il sensegiving finale. L’articolo, in definitiva, si concentra sull’uso pratico della semiotica nel design dell’arredo, proponendo una visione non linguistica ma referenziale che possa aiutare il designer nella gestione del senso del proprio prodotto.

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This article deals with strategy step of furniture design, in particular with sensemaking. This last is an abductive process, which this paper restricts to designer’s interpretation on objects of his/her area of expertise. The research has complied with a circular evolution, essentially composed by: 1. empirical analysis of furniture sector and relative cultural trends; 2. research of semantically coherent groups of furniture; 3. theory-building.

The result is a methodology able to guide and visualize sensemaking in furniture design process. Beginning from Peirce’s Semiotics, this study reconstructs a theoretical framework by identifying four kinds of furniture-referent connections and four corresponding semantic purposes. Then, it guides the creation of a concept map representing mental organization and interpretation of the gathered iconographic material. Concept mapping generates semantically coherent groups of furniture, which we can see as design patterns directing final sensegiving. This paper focuses on a practical use of semiotics in furniture design, by proposing a not linguistic referential vision that could help designer in managing the sense of his/her product.

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Self marketing per le professioni. Un percorso formativo per i talenti dell’alta formazione

Sperimentazione di una metodologia di analisi semantica

/Francesco Ruffa

(l’articolo fa parte del libro Self marketing per le professioni. Un percorso formativo per i talenti dell’alta formazione)

Tra gli oggetti presenti nell’ambiente domestico occidentale (opere d’arte, fotografie, libri, strumenti musicali, piante, ecc.), gli arredi sono quelli considerati più spesso come ‘speciali’, rilevanti, incaricati di costruire significati coerenti con i valori umani e sociali dei loro fruitori, che cercano riflessi di ciò che sono o vorrebbero essere.

Pertanto la definizione formale di un arredo domestico, che fa pure i conti con aspetti tecnologici e funzionali, dialoga principalmente con quegli elementi sensoriali che contribuiscono a generare la product experience e in particolare la sua componente semantica. La progettazione strategica dell’arredo domestico – la quale va dall’iniziale individuazione di temi chiave alla definizione di fondanti caratteristiche design-orienting – ha il compito di rendere intellettualmente significante la forma, ricorrendo a una prospettiva semiotica rivolta al contesto.

Il cuore della progettazione strategica è la fase interpretativa. Tuttavia, da quanto emerge nella pratica, essa non viene affrontata in modo ampiamente condiviso. Ogni art director ha il proprio criterio, che generalmente può essere considerato come “informato” o “basato sull’esperienza”. Nel primo caso si affida a un’analisi sistematica (sebbene personale) mentre nel secondo conta sull’esperienza soggettiva dell’interprete.

A dispetto di una diffusa arbitrarietà, sembra emergere il bisogno di una progettazione strategica strutturata su radici metodologiche più solide. I manager vedono già nella sistematizzazione del processo e nella minore centralità dell’individuo una positiva riduzione del rischio. Mentre occorre convincere gli art director che l’applicazione di una metodologia nella fase strategica non implica la sostituzione della creatività con criteri deterministici ma, al contrario, guida la stessa creatività verso un migliore rendimento.

La ricerca di dottorato, focalizzata sulla sfera interpretativa del progetto strategico, ha evidenziato limiti evidenti nella semiologia di matrice linguistica e ricostruisce una nuova metodologia allineandosi a un rinnovato interesse verso il dibattito pragmatista.
Per interiorizzare e sviluppare processi di innovazione è necessario che l’impresa si strutturi per «integrare al proprio interno le competenze di design, non solo con riferimento alle fasi di sviluppo esecutivo del prodotto, ma anche con riferimento al processo che porta a sviluppare traiettorie di innovazione e nuove soluzioni progettuali»*. Per quanto riguarda le imprese design-based, la progettazione strategica è normalmente affidata all’art direction, ovvero a quella funzione aziendale che indica la linea formale da attribuire a una certa gamma di prodotti e/o all ‘intero portfolio.

Il project work ha l’obiettivo generale di introdurre e sperimentare con l’art direction dell’azienda una nuova metodologia di analisi semantica, capace – si auspica – di rendere più sistematica ed efficace la progettazione strategica di linee di arredo domestico. L’apporto teorico si concretizzerà con l’integrazione della metodologia a un caso progettuale.

* A. Deserti (2007), Intorno al progetto: concretizzare l’innovazione, in F. Celaschi e A. Deserti, Design e innovazione. Strumenti e pratiche per la ricerca applicata, Carocci, Roma, p. 71.

[ vedi pubblicazione ]

Sensemaking nl design dell'arredo

Sensemaking nel design dell’arredo

/Francesco Ruffa

Sintesi

Sensemaking nel design dell'arredo

Esperienza semantica nel design dell’arredo

L’esperienza data dall’interazione con un prodotto (product experience) è formata da un doppio canale: estetico e semantico. Il primo è irrazionale, relativo alle nostre preferenze biologicamente predeterminate. Il secondo, invece, è conscio, e ha che fare con i valori culturali del nostro contesto di riferimento.
Dal punto di vista estetico-sensoriale, le neuroscienze hanno dedicato studi interessanti agli effetti percettivi dei singoli attributi estetici (colori, forme, ecc.). Ma la cosa più rilevante che oggi ci dicono, in sintesi, è che i singoli attributi causano effetti caotici e imprevedibili quando si sovrappongono all’interno di oggetti normali. Pertanto l’esperienza estetica può essere solo governata istintivamente dalla sensibilità del designer.
L’esperienza semantica, invece, ci permette di dire molto di più. Il sensemaking –  ovvero il processo interpretativo che sta alla base del senso evocato dall’oggetto nel consumatore – è un’azione consapevole e informata, che in fase di progetto riguarda non solo il designer ma anche e soprattutto chi ricopre un ruolo di design direction all’interno di un’azienda.
La mia ricerca ha l’obiettivo di elaborare una metodologia per gestire consapevolmente il sensemaking e dunque la qualità semantica degli arredi e degli interni. È un tema che ha ottenuto una crescente attenzione da quando la teoria del management ha riconosciuto le elevate potenzialità di processi basati sullo stravolgimento radicale dei significati.
I significati di cui parliamo – è bene dirlo – sono quelli generati dalle caratteristiche intrinseche del prodotto, al di là della comunicazione o del brand con cui esso viene veicolato. Su questa base, i prodotti possono generare significato in due modi: 1. attraverso l’uso, facendo svolgere un’attività significativa; 2. oppure tramite la qualità formale e sensoriale, che evoca qualcosa mentre lo guardiamo, lo annusiamo e lo tocchiamo. Nel mondo della ricerca, e di riflesso in quello aziendale, la conoscenza sul significato attraverso l’uso (chiamato significato latente) è stato ampiamente studiato. Al contrario, l’analisi sul significato attraverso la percezione (che chiamiamo significato manifesto) è rimasta fortemente incompleta, come se riguardasse l’arte e non il disegno industriale dedito agli oggetti d’uso.

In realtà, il design italiano non ha mai tracciato un confine di separazione tra sé e l’arte, ed è sempre stato a cavallo tra interior design e arti visuali. Le imprese italiane sono sempre state coscienti che il loro prodotto, prima di essere oggetto d’uso, fosse un segno capace di evocare valori culturali ad ampissimo spettro. Nel segmento premium a cui le imprese italiane dell’arredo si rivolgono, l’innovazione di prodotto si è sempre basata non sul significato latente legato all’usabilità ma sul significato manifesto evocato formalmente.

Oltre le interpretazioni personali

La capacità di interpretare – e soprattutto di direzionare – il significato manifesto di un progetto, intuendone le potenzialità all’interno del mercato, è spesso considerata un mix tra innata sensibilità e acquisita esperienza. Chi (imprenditore o art director) assume la responsabilità decisionale sul portfolio prodotti si attribuisce tale qualità. Tuttavia, qualunque azienda managerializzata auspicherebbe per la fase interpretativa e strategica una metodologia più sistematica. È condiviso che una maggiore conoscenza delle modalità di significazione può portare a ridurre gli errori, a costruire con maggiore consapevolezza le vision, a spiegare gli investimenti agli azionisti e a trasferire un’abilità interpretativa all’interno dell’azienda.

D’altra parte, la cultura del progetto ha già tentato nel passato di stabilire approcci interpretativi. In quel caso si trattava di teorie basate sul legame tra significato e linguaggio, la cui eredità è giunta fino a noi. Si parla, ad esempio, di “linguaggio di una sedia”. Tuttavia, di fronte all’attuale frammentazione dei valori culturali e alla conseguente destrutturazione dei codici formali, il parallelismo tra design e linguaggio sembra giunto a una debolezza mai vista prima. Come può formarsi un linguaggio quando i valori culturali da esprimere cambiano temporalmente e geograficamente a una velocità molto maggiore di quella di sedimentazione dei codici stessi?
Il design italiano ha vissuto prima degli altri il rifiuto di un prodotto ‘logico’, linguistico, ottenuto attraverso un processo lineare (idea sostenuta, invece, dalla scuola tedesca). E oggi il design internazionale dominante sembra sulla stessa linea. Esso non dice e non comunica. Piuttosto, come l’arte visuale, rappresenta, esprime, incarna. Per usare la parola più corretta: evoca.
Pertanto serve una strada alternativa alla teoria linguistica.

Attraverso la mia ricerca, ho voluto elaborare un criterio interpretativo a partire dalla semiotica pragmatista di Charles Peirce. La mia ricerca e il mio design considerano gli oggetti non come strutture linguistiche (fatte di forme, colori, ecc.) ma come segni formulati per rappresentare qualcos’altro. La mia metodologia non si fonda sulla definizione strutturale e linguistica dell’oggetto ma sulla sua modalità di rappresentazione e significazione; non intende i prodotti come somme di segni ma come segni nella loro integralità; non considera gli arredi come indicativi di un uso ma come generativi di un piacere; non vede i prodotti come ipercodificati ma spesso come ipocodificati.
L’eredità che il lavoro di ricerca ha trasferito alla mia pratica professionale è la possibilità di interpretare in modo sistematico (e non istintivo) ciò che accade nel mondo del design, avere una visione puntuale sui trend emergenti e meglio orientare nuove possibili traiettorie progettuali. La mia metodologia mi aiuta a mappare quotidianamente la cultura materiale secondo aree semanticamente coerenti, associabili a segni di natura diversa (icone, indici-tracce, indici-inviti, simboli), legati a scopi relazionali differenti (espressivo, referenziale, conativo, interattivo).

Il mio sensemaking permanente, che poi facilita l’attività di sensegiving, si articola nei seguenti step:

  • Mappatura del mercato di riferimento attraverso un benchmarking ‘design oriented’ di prodotto, che restituisca un’inedita fotografia semiotica dell’offerta di settore e sottolinei le driving forces semantiche più consolidate.
  • Analisi intersettoriale delle macro-tendenze contemporanee, attraverso un’osservazione nei settori fashion-oriented e nei territori dell’arte.
  • Costruzione di scenari ‘a tema’, frutto di mappature semantiche incrociate riguardanti settore domestico, gli altri settori di consumo fashion oriented, i campi artistici, i fenomeni di costume. Gli scenari devono rilevare strade non ancora praticate che potrebbero diventare traiettorie d’innovazione.

La metodologia è stata ampiamente discussa alla 11^ Conferenza della European Academy of Design (The Value of Design Research), attraverso la presentazione del paper Connecting Objects and Cultural Trends: A Pragmatist Approach for Sensemaking in Furniture Design.

Vuoti a rendere. Progetti per la reinterpretazione e il riuso degli spazi nell’edilizia pubblica

Una nuova idea di casa minima

/Francesco Ruffa

(Il pezzo riportato, scritto da Francesco Ruffa, è la prima metà di un articolo più ampio firmato insieme a Luciano Crespi)

All’origine di ogni ondata d’interesse verso la casa minima vi è sempre, oggi come in passato, una contingenza economica che causa un’incoerenza tra domanda e offerta. E vi è una necessità sociale, quella di realizzare al risparmio una casa per chi non è in grado di affrontare il mercato immobiliare di riferimento.
Nella seconda metà del XIX secolo, e poi in seconda battuta tra le due guerre mondiali,  l’industrializzazione e il conseguente fenomeno di urbanizzazione creano uno scarto drammatico tra il reddito della nuova classe operaia e un’offerta costituita in prevalenza da case di grandi dimensioni. Se da un lato il patrimonio abitativo risponde ancora ai canoni della famiglia patriarcale, dall’altro le città europee si popolano di modelli familiari nuovi, in primis la piccola famiglia nucleare e marginalmente un largo numero di donne nubili e di immigrati soli.
Del 1928 sono i lavori di Alexander Klein[1], che sulla scia del movimento razionalista tenta di applicare un rigore scientifico alla progettazione di interni abitativi salubri ed economici.
Del 1929 è il secondo CIAM, tenuto a Francoforte, che pone la casa minima al centro del dibattito. I modernisti sono interessati ad attribuire un ruolo sociale all’alloggio, pensato sia nella dimensione individuale sia in funzione di un inserimento nel progetto collettivo e urbano. Da questa accezione ‘oggettiva’, per la quale l’individuo è visto come un portatore di processi fisiologici pressoché costanti, deriva una cultura progettuale convinta di poter realizzare e replicare in serie il benessere sufficiente dell’individuo dentro ideali di risparmio di suolo e di razionalizzazione scientifica della forma.
Nella prima metà del Novecento, dunque, l’alloggio minimo è inteso come risposta ai bisogni biologici di una domanda considerata omogenea, proveniente da un blocco sociale solido e ben identificato.
Oggi il problema iniziale è simile (l’incoerenza tra domanda e offerta) e al posto della famiglia operaia di un secolo fa vi è l’infinita schiera di nuovi abitanti (anziani soli, genitori separati, famiglie monogenitoriali, studenti fuori sede, immigrati extracomunitari, ecc.) che non può accedere alla casa ereditata da quella famiglia operaia che oggi chiamiamo ‘tradizionale’.
Da un altro punto di vista, però, il panorama attuale è diverso. L’alloggio minimo è ora interpretato come risposta a desideri esistenziali che vanno oltre il comfort ‘muscolare’ e che provengono dalla domanda estremamente frammentata di una società fluida e priva di classi.
Se, dunque, l’existenzminimum razionalista punta a un compromesso efficace tra basso costo e svolgimento di funzioni ‘meccaniche’ attribuite alla famiglia operaia (dormire, mangiare, lavarsi, ecc.), l’ambiente minimo contemporaneo cerca un compromesso tra basso costo ed esigenze molto eterogenee.
Pertanto, cambia non solo la struttura familiare (dalla famiglia operaia a modelli multiformi) ma anche il modo con cui la intendiamo legata all’ambiente.
Vi è un’alterazione non solo in quel corpo diverso e camaleontico che s’inoltra nella casa contemporanea ma anche nel nostro modo di guardarlo. Abbandoniamo la visione del corpo precisamente misurabile che appare nel Modulor di Le Corbusier (1948) – il corpo come unità di misura dello spazio -, e accogliamo l’emergere prepotente della persona, in tutta la sua complessità, per la quale il concetto di spazio misurabile perde senso, teso tra il corpo stesso e l’infinito.
Un secolo fa, l’attività funzionale del corpo umano era unità di riferimento per uno spazio a sua volta quantitativo. Oggi il corpo è inteso come antenna sensoriale che mette in relazione la sfera emozionale della persona con un ambiente giudicato in termini qualitativi, nella sua integrità, al di là dei singoli elementi sintattici di cui è costituito (dimensioni, materiali, colori, ecc.).
Come cambia, dunque il concetto di minimo? In relazione a cosa un ambiente deve possedere il minimo costo?
La cultura del progetto designa con l’aggettivo “minimo” quell’elemento che, rispetto a eventuali alternative, è il più ridotto possibile per realizzare un determinato fine.
Se nella prima metà del secolo scorso l’obiettivo era quello di ottenere il benessere attraverso una codificata quantità di elementi spaziali (e dunque l’obiettivo diretto erano gli elementi spaziali), oggi il progetto, attraverso la costruzione soggettiva di un ambiente polisensoriale, insegue in modo diretto un piacere psicofisico, sociale e riflessivo. In altre parole, le dimensioni e le caratteristiche distributive di un alloggio costituiscono un elemento importante ma non esclusivo del progetto. La soglia minima che dobbiamo tenere in mente non è data da un valore dimensionale ma dalla qualità globale del progetto necessaria per ottenere il benessere complessivo del suo abitante. La dimensione è solo un qualcosa che, insieme ad altri elementi, concorre a questa qualità.
Da questo ragionamento, che rifiuta l’idea di una soglia dimensionale, l’espressione “housing sottosoglia” ne esce un po’ indebolita.
In un certo senso, non esiste un ambiente sotto soglia. Tutt’al più, quest’espressione può essere assegnata a un progetto che, nel suo insieme, non riesca a soddisfare in modo efficace obiettivi realistici assegnatigli – obiettivi estremamente mutevoli, data la frammentazione socio-demografica e culturale degli abitanti contemporanei.
Il mondo dell’arte e della sperimentazione esplora in modo interessante questa nuova tensione spaziale tra corpo e infinito. Immagina vere e proprie case-abito i cui confini coincidano col corpo stesso – ad esempio la serie Refuge Wear (1993-2005) di Lucy Orta – oppure concepisce case-letti che forzino alla posizione del riposo tra ostilità spaziale e stimolo sensoriale – ad esempio le capsule per dormire di Atelier van Lieshout (Mini Capsule Side Entrance e Maxi Capsule Luxus, 2002).
A un livello diverso, osserviamo unità abitative pensate per consentire movimenti ‘calibrati’ tra funzioni densificate, in spazi di sopravvivenza privi di alcuna ridondanza visuale. La leggendaria Nakagin Capsule Tower di Kurokawa (Tokyo, 1970-1972) ispira ancora oggi progetti destinati ai nomadi contemporanei (ad esempio la Micro Compact Home di Richard Horden, 2001-2005).
Dunque si rifiuta un dogma che sostenga una minimizzazione quantitativa valida una volta per tutte, effettuata in relazione a un benessere psicofisico definito univocamente dalle scienze mediche e psicologiche. La visione contemporanea cambia punto di riferimento, passando dall’obiettivo di una razionalizzazione distributiva predefinita a quello di una qualità più sfaccettata, legata non per forza allo spazio ma, in modo più olistico, alla coerenza tra ambiente progettato e immaginario del fruitore.
Questo cambiamento culturale si ripercuote nel progetto dell’abitare in generale, che ormai sente maturo il momento di sradicare anche le eredità più forti del movimento moderno.
Vittima illustre, ad esempio, è la cucina di Francoforte progettata negli anni ’20 da Margarete Schütte-Lihotzky. Ci basta osservare i concorsi indetti nell’ultimo anno sulla rielaborazione di questo tema progettuale: il concorso La vita in cucina: tradizione e innovazione (2013), organizzato a Saluzzo; Next Kitchen Design, organizzato da MAGA (Associazione Giovani Architetti della Provincia di Milano) in occasione di EuroCucina 2014; RE-Thinking Kitchen 2013, organizzato da Gerratana srl. Per non citare chi, facendo letteralmente a pezzi la cucina del passato, diede il via alla propria fortuna: nel 1997, Giulio Cappellini intuì il talento dei fratelli Bouroullec vedendo la loro Disintegrated Kitchen esposta al Salon du Meuble di Parigi.

Dal punto di vista di un progettista che si addentra nel tema proposto – alloggi di piccole dimensioni da destinare a famiglie mono-genitoriali per un semestre -, l’obiettivo non è più quello teorico di difendere una certa quantità di spazio dentro una corsa al ribasso (approccio che, in uno spazio esistente, si escluderebbe da solo) ma quello di inseguire le soluzioni migliori per offrire una buona qualità di vita al maggior numero possibile di persone. “Dall’existenz minimum all’existenz maximum”[2], come ha scritto Alessandro Mendini.
Si badi al plurale: soluzioni migliori. Perché se compiamo lo scarto laterale di cui detto, ovvero consideriamo gli abitanti non come replicanti di processi fisiologici sempre uguali ma come individui dalle condizioni esistenziali più multiformi, prendiamo atto che non esiste una qualità valida per tutti e che solo la varietà può consentire di scegliere tra ambienti unici e attraenti, in cui la riduzione di spazio non corrisponda necessariamente a maggiore miseria.
Su questa riflessione teorica interviene la pratica del design, che incrementa il valore semantico dei luoghi non modificando i confini architettonici ma utilizzando dispositivi d’arredo e di allestimento. Ad esempio: offre opportunità di coinvolgimento post-occupazione del fruitore; di esaltazione delle attività quotidiane (come il gioco); di distinzione delle particolarità individuali (come ambienti a misura di bambino); di flessibilità favorevole per accogliere ospiti; di contributo attivo alla sostenibilità ambientale; di luogo come deposito temporaneo della memoria personale e collettiva; e così via.

[1] La figura di Klein è ingenerosamente dimenticata dalla storiografia contemporanea – nel momento in cui scriviamo, neanche Wikipedia gli concede spazio (lo troviamo solo nella versione tedesca). Ma certo il suo contributo allo studio degli interni abitativi lo pone come un caposaldo al pari dei più famosi Walter Gropius, Bruno Taut, Marti Wagner e Le Corbusier.
Cfr. Bevilacqua, M.G. (2011). Alexander Klein and the Existenzminimum: A ‘Scientific’ Approach to Design Techniques. Nexus Network Journal, 13(2), 297-313. Paper presentato a Nexus 2010: Relationships Between Architecture and Mathematics, Porto, 13-15 giugno 2010. Doi: 10.1007/s00004-011-0080-6.

[2] Mendini, A. (a cura di). (1990). Existenz maximum: giovani presenze del design fra il mistico e lo spaziale. Firenze: Tipolito Press 80, p. 5.

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L’uomo dentro il progetto della residenza

L’uomo dentro il progetto della residenza

/Francesco Ruffa

(Traduzione della pubblicazione originale in lingua inglese)
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E’ ormai condiviso che gran parte della produzione ereditata dall’architettura e dall’urbanistica moderna del Novecento ha segnato un profondo distacco tra costruito e processi umani di insediamento. “Quando si pensa alla storia dell’abitare in Italia degli ultimi cinquant’anni”, scrive Franco La Cecla, “vengono subito alla mente la grande urbanizzazione, la devastazione del paesaggio e l’enorme sviluppo dell’abusivismo, sia sotto forma di “palazziname”[…], sia sotto forma di “casa sparsa” nella città-non-città”[1] (o nell’“anticittà” , come definita di recente da Stefano Boeri[2]). Proprio nell’ambito dell’abitare, secondo La Cecla, l’architettura italiana del Novecento avrebbe raggiunto i suoi risultati più drammatici: la casa, ormai sradicata di netto dalla sfera esistenziale della “strada”[3], sarebbe stata interpretata non più come luogo d’immersione di tutte le attività quotidiane ma come ambito semplificato costituito da un insieme di questioni puramente ergonomiche e funzionali. La cultura architettonica, scrive Giovanni Caudo[4], “sembra essersi appiattita sul mercato imperante e sulle domande di spettacolarizzazione che i processi di finanziarizzazione impongono; un ripiegamento verso l’immagine, talvolta con tinte ecologiche, che non ha incontrato, se non raramente, le reali condizioni delle persone e degli abitanti”.
Il distacco che ha avuto luogo in passato tra produzione architettonica e scienze umane, questione che nelle parole dell’antropologo La Cecla risuona come un segnale di allarme non privo di comprensibile coinvolgimento personale, è ormai uno stato di fatto condiviso dall’intera cultura del progetto che, al di là di ogni dimensione di scala, attribuisce ai viventi un ruolo sempre più centrale nel processo progettuale.
All’11^ Mostra Internazionale di Architettura (Biennale di Venezia 2008), il Padiglione Italiano espose dodici progetti sperimentali che, con l’azzardo tipico di quei progetti non destinati alla realizzazione, proponevano esplicitamente alcuni temi emergenti per il progetto della residenza.
Nonostante il Padiglione fosse costituito da matrici culturali molto eterogenee, vi era un comune fil rouge, costituito da una “casa possibile” che il suo curatore Francesco Garofalo descriveva come “fatta di luoghi, utenti e processi diversi dal passato”, dove l’obiettivo di passare “dalla casa all’abitare” bastava “per mettere a fuoco la differenza”, laddove la parola “abitare” “evoca tutto ciò che va oltre la costruzione dell’alloggio misurabile e definibile con standard quantitativi e pone la questione, tanto per cominciare, di dove esso è collocato, in che rapporto sta con gli altri, e soprattutto chi è il suo abitante”[5]. Se nella cultura modernista lo spazio aveva l’ambizione di generare l’individuo e le sue relazioni, oggi spetta all’identità della persona e della comunità plasmare e generare  l’ambiente in cui desiderano immergersi.
Nella mostra “Small Scale, Big Change” (New York, 2010)[6], sono stati esposti, invece, progetti già realizzati, pensati come gesti pragmatici spinti dalle singole comunità e non da teorie utopiche, e dove l’innovazione includeva una rivalutazione dei metodi di coinvolgimento degli abitanti e l’assunzione di nuove forme di gestione sociale ed economica. Nell’ambito dell’housing, la mostra espose casi eccellenti come Quinta Monroy Housing di Elemental (Iquique, Cile, 2003-2005), la collaborazione tra l’organizzazione non governativa Casa Familiar da parte dell’architetto Teddy Cruz (San Ysidro, California, 2001-presente), e la trasformazione della Torre Bois-Le-Prêtre di Druot, Lacaton e Vassal (Paris, Francia, 2006-2001). Casi in cui l’innovazione della gestione sociale ed economica del progetto supera di gran lunga l’importanza di qualsiasi questione visuale e compositiva.
L’elenco di mostre, eventi e progetti che indicano questo cambio di direzione potrebbe continuare, ma ciò che ora ci interessa è rilevare due aspetti.
Da un lato è evidente che la casa, nel suo significato più generale, è al centro di un rinnovato interesse da parte della cultura del progetto. Se ne scorge l’ennesimo segnale nel fatto che la mostra “House & Home”, inaugurata l’anno scorso al National Building Museum di Washington, durerà fino al 2017[7].
Dall’altro lato osserviamo che il modo di concepire la casa si è spostato dalla priorità dello spazio e delle relazioni fisiche a quella della persona e delle relazioni tra viventi. Questa doppia polarità tra artefatto e persona, tra ruolo di spinta sociale del progetto o piuttosto quello di traino da parte delle componenti umane, è stato un confronto su cui la cultura del progetto si è spesa a lungo nel secolo scorso. Sembra interessante, dunque, provare a comprendere il senso di questa storica contrapposizione attraverso un focus sul dibattito italiano, che ha visto una contrapposizione tra visioni alternative del progetto confondersi in un’apparentemente pacifica convivenza tra discipline progettuali operanti a diverse scale.

Il progetto dell’abitare in una storia di visione alternative

Il distacco tra attività progettuale e risorse umane ha origini salde nella cultura modernista europea, la cui visione puntava a una trasformazione forzata degli uomini e rifiutava un approccio soft che prevedesse una parziale accettazione della società reale. La cultura razionalista conduceva verso la concezione di una società trainata dalla produzione, la cui priorità era quella di rispondere definitivamente ai bisogni primari degli uomini, ponendo in posizione marginale gli aspetti più intimi e mutevoli[8].
In Italia, il percorso che porta all’affermazione della tradizione razionalista nella dimensione architettonica si incrocia inevitabilmente con quel design che si impone internazionalmente per tensione verso emozioni, comportamenti e rituali umani. Negli anni ’60 e ’70 la cultura del progetto italiana vede la sovrapposizione di due grandi e contrapposte visioni: da un lato i milanesi eredi della filosofia razionalista di Ernest Nathan Rogers, e dall’altro lato il Movimento Radical nato fuori Milano, spinto da sguardo antropologico verso un totale sradicamento delle regole formali della composizione.
Il confronto iniziale tra due visioni culturali alternative e conflittuali sembra slittare, di fatto, nell’attribuzione di una diversa competenza di scala ad ognuno dei due approcci: i razionalisti mantengono l’egemonia sul fronte della scala architettonica, mentre l’avanguardia ottiene una maggiore penetrazione culturale nel design, per sua natura più predisposto ad accogliere proposte non assolutistiche, generate per una società reale in trasformazione e una cultura che “può perdere la sua connotazione unitaria”[9].
Mentre la cultura dominante, dunque, sposta il suo baricentro d’attenzione sugli spazi pubblici urbani, l’approccio antropologico portato avanti dall’avanguardia matura un interesse crescente verso le relazioni emozionali dell’ambiente domestico: per questo accade che la domesticità vera e propria, tornata ad essere un tema di progetto, viene trattata soprattutto nell’ambito disciplinare del design dell’arredo e degli interni. Il Movimento Moderno, suggerisce Andrea Branzi[10], tarda nel comprendere che l’invivibilità della città impone una nuova riflessione antropocentrica dell’abitare stesso e dimostra di considerare “progettualmente degni” solo gli spazi pubblici della città, i vuoti, su cui prova a versare invano una serie di funzioni vitali perdute negli spazi domestici. Negli anni ’60 e ’70, il design italiano e le sue avanguardie si muovono su una linea propria separata da quella principale, con obiettivi che non sono puramente ergonomici e funzionali ma umanistici ed espressivi, e dove il focus dell’attenzione non è lo spazio pubblico ma l’evoluzione della dimensione domestica.
Pertanto, se è vero che in Italia il tema della domesticità diventa quello preferenziale di un design che ha avuto origine “nei legami sociali, culturali e psicologici tra interni e loro moderni abitanti, focalizzandosi sull’arena privata della casa e dei bisogni della vita moderna”[11], è anche vero che il compito operativo di costruire interi quartieri residenziali viene affidato al progetto estetico e politico del modernismo architettonico che, come detto prima, si concentra soprattutto sulle connessioni fisiche ospitate negli spazi pubblici urbani e che realizza la sua idea di interno domestico “dentro le residenze private nella forma, prima, delle cucine razionalizzate e, più tardi, dei soggiorni in stile quasi non arredati”[12].
I progetti residenziali prodotti, oggi molto discussi, risultano spesso lontani dai bisogni umani e sociali delle persone ma forse anche fondati su principi progettuali che oltrepassano lo stesso ruolo di abitabilità[13]. E’ come se la cultura architettonica del Novecento abbia ignorato per molto tempo una radicale trasformazione della cultura abitativa, entrata fisiologicamente più nelle attese della gente che nella capacità degli architetti, degli urbanisti e degli amministratori di produrre oggetti bastevoli alle necessità[14]. “Gli urbanisti e gli architetti”, scrive Franco La Cecla, “hanno creato manufatti e ordini che non hanno mai funzionato, la gente ne ha creati altri che [per kitsch] facevano concorrenza agli spropositi dei primi”[15]. Parole che sembrano coincidere con quelle di Paolo Desideri, che vede da un lato “il mediocre sogno liberista ‘american dream’, […] patetico, della casetta unifamiliare con Biancaneve e i sette nani nel giardino”, e dall’altro architetti e urbanisti che hanno continuato a produrre mega-strutture “come Corviale, Laurentino 38, Tor Bella Monaca a Roma o Zen a Palermo”[16].
In altre parole, il contesto dei quartieri residenziali italiani ospita il confronto tra un esercito compatto di architetti, autori di rigidi schemi intellettuali, e frange disperse di persone comuni, protagoniste di un’azione disordinata e inconsapevole che potremmo chiamare “guerriglia kitsch”. E lo stesso confronto sembrerebbe incarnare la contrapposizione tra chi intende una fruizione visuale dell’ambiente e chi invece ne pretenderebbe una tattile e vissuta.
La guerriglia kitsch è interessante per la sua capacità di rivelare il margine di insoddisfazione rispetto a quanto prodotto dall’approccio razionalista: “a volte”, sostiene ancora La Cecla, “è la maniera più diretta e domestica di affermare il contrario della magniloquenza. Il kitsch ha una retorica senza fronzoli, è lì, talmente falso da non avere bisogno di essere giustificato. Se ne ride delle ipotesi di riforma della società cui, onestamente o no, si applicano politici e urbanisti”[17].
L’osservazione degli ambienti domestici della famiglia media italiana rivela un’altra questione fondamentale, ovvero un’assenza trasversale di simbologia borghese legata a specifici statuti culturali (simbologia più presente, invece, in paesi come l’Inghilterra o la Francia)[18]. Proprio in questa assenza di borghesia, oggi comune a tutto il mondo occidentale, Andrea Branzi[19] rintraccia la ragione per cui il design italiano è sempre stato pioniere nell’affrontare il tema abitativo in modo sperimentale. Un mondo umano privo di codici stabili e sicuri consentiva di interpretare la casa come “un’ipotesi di ricerca”, “uno spazio che apparteneva più alla fantasia che alla prassi quotidiana”, un “laboratorio ipotetico di sperimentazione di comportamenti evolutivi”[20].
Mentre la scuola modernista si occupava dunque di una casa del presente che era destinata ad abitanti progettati, politicamente e razionalmente immaginati in un futuro ideale, il design faceva il contrario, ovvero indagava con grande sensibilità gli abitanti del presente a cui proponeva ambienti domestici costantemente estremizzati e necessariamente proiettati nel futuro. Se da un lato la casa reale ignorava la dimensione antropologica dell’abitare ma di fatto risultava concreta e praticabile di fronte ai bisogni più immediati, la casa sperimentale, per evidenziare mutazioni trasversali alla società, tendeva a materializzarsi come in eccesso rispetto al presente[21].

Verso l’integrazione di eredità culturali diverse nel progetto dell’abitare contemporaneo

Come abbiamo visto all’inizio di questo articolo, la cultura del progetto ha ormai abbandonato le grandi utopie del secolo scorso e ha scelto un approccio più “dolce”, orientato verso le persone e le comunità, con uno spettro di differenti strategie che possono riguardare, ad esempio, l’utilizzo di materiali economici o eco-compatibili, il coinvolgimento degli abitanti nel processo progettuale o nell’interazione con gli artefatti realizzati, il rafforzamento di relazioni sociali oppure l’appagamento degli aspetti emozionali più latenti dell’individuo.
Ma in questa tendenza generale ad ascoltare più la persona e le sue relazioni, ci sono in realtà differenze che provengono ancora da quelle matrici culturali già viste in passato e prima evidenziate.
Se è vero che l’ascolto dell’abitante è ormai affermato all’interno dell’intera cultura del progetto, non possiamo trascurare che ancora persistono differenze tra chi, da un lato, organizza il proprio lavoro su interpretazioni antropocentriche e anti-specistiche (in english: anti-speciesist) degli interni[22] o sull’immaterialità di negoziazioni umane[23], e chi, dall’altro lato, intende incoraggiare con la forma relazioni sociali tra sconosciuti, attraverso interventi fisici top-down a livello urbano[24]. Da una parte, insomma, sembra esservi chi punta con approccio umanistico e psicologico ad accogliere i gesti quotidiani individuali della vita domestica ed extra-domestica, confidando che le relazioni sociali si costruiranno spontaneamente tra persone individualmente stimolate; dall’altra parte, invece, c’è chi assume interpretazioni più sociologiche e risposte più politiche, concentrando il proprio interesse sulle “relazioni sociali tra persone” piuttosto che sulle “persone”, e spostando il baricentro dalla sfera domestica ai flussi ideali di grandi spazi collettivi e urbani.
Allo stesso modo, se oggi osserviamo scuole di progetto italiane apparentemente concentrate su scale progettuali diverse (architettura o design), può capitarci di incontrare impianti formativi distanti non tanto per scala di competenza ma piuttosto per visioni culturali contrapposte, parzialmente ereditate da quegli approcci che nel secolo scorso distinguevano il filone razionalista della progettazione architettonica e quello antropologico del design. Andrea Branzi, che ha vissuto in prima persona la vicenda italiana, tende a sottolineare la differenza culturale tra le parti, funzionale da un lato e umanistica dall’altro. Luciano Crespi[25], che di recente osserva la questione in termini più applicativi, rileva una differenza di processo progettuale tra quello architettonico, più induttivo e fondato a partire dal contesto fisico, e quello tipico del design, più deduttivo e basato in prima istanza sull’astrazione di principi umani e sociali.
Esperienze come il workshop “Living Tomorrow”[26], a cui ho partecipato come tutor, incoraggiano il confronto tra studenti di differente provenienza non solo geografica ma anche culturale, relativa a scuole diversamente orientate verso l’architettura o il design.
Simili iniziative, se replicate, possono essere utilizzate per considerare più sistematicamente potenzialità, debolezze e chance di integrazione nell’incrocio tra ciò che resta dell’una o dell’altra eredità culturale. Sotto questa luce, sarebbe opportuno “riavvolgere il nastro” parlando meno di “architettura” o di “design” e più delle diverse sensibilità culturali originarie, orientate rispettivamente alla sfera visuale dell’ambiente oppure a quella tattile, a concettualizzazioni formali oppure a paradigmi umani, a relazioni fisiche del contesto oppure a relazioni tra viventi.
Mentre prendiamo atto che la dicotomia tra contesto fisico e immaterialità umana non è del tutto superata, possiamo accogliere con ottimismo il fatto che le due matrici culturali del passato si confrontino più equamente allo stesso livello di scala e che provino a conciliare con migliori risultati lo storico dualismo tra individuo e società.

[1] La Cecla, F. (2002). Una questione di gusto. La casa “made in Italy” nell’immaginario popolare. In G. Bosoni (Ed.), La cultura dell’abitare. Il design in Italia 1945-2001 (pp. 38-51). Milano, Italy: Skira, p. 43.

[2] Boeri, S. (2011). L’anticittà. Roma-Bari, Italy: Laterza.

[3] La Cecla, F. (2002). Op. cit., p. 48.

[4] Caudo, G., & Bastianelli, S. (2008). Dalla casa all’abitare. In F. Garofalo (Ed.), L’Italia cerca casa / Housing Italy (pp. 40-47). Mlano, Italy: Electa, p. 45.

[5] Garofalo, F. (2008). Introduzione. In F. Garofalo (Ed.), L’Italia cerca casa / Housing Italy (pp.). Mlano, Italy: Electa, p. 17.

[6] Exhibition at MOMA from October 3, 2010 to January 3, 2011.

[7] Exhibition at National Building Museum from April 28, 2012 to May 1, 2017.

[8] Nel rilevare le aberrazioni di questa cultura meccanicistica dell’abitare, sembra straordinariamente lucido il film di Jacques Tati Mon Oncle (1958).

[9] Branzi, A. (1984). La casa calda. Esperienze del Nuovo Design Italiano. Milano: Idea Books, p. 18.

[10] See Ibidem, pp. 149-150.

[11] Sparke, P. (2010). The Modern Interior: A Space, a Place or a Matter of Taste?. Interiors, 1(1/2), 7–18.

[12]Ibidem.

[13] See La Cecla, F. (2002). Op cit., p. 39.

[14] Desideri, P. M. (2009). Existenzmaximum: abitare dopo il Moderno. In M. Farina (Ed.), Housing conference. Ricerche emergenti sul tema dell’abitare (pp. 59-63). Roma, Italy: Gangemi, pp. 59-60.

[15] La Cecla, F. (2002). Op cit., p. 39.

[16] Desideri, P. M. (2009). Op. cit., p.. 60.

[17] La Cecla, F. (2002). Op. cit., p. 48.

[18] Branzi, A. (2002). Un paese senza casa. Modelli sperimentali per lo spazio domestico. In G. Bosoni (Ed.), La cultura dell’abitare. Il design in Italia 1945-2001 (pp. 144-163). Milano, Italy: Skira; La Cecla. F. (2002). Op. cit.,  p. 43.

[19] Branzi, A. (2002). Op. cit., p. 145.

[20] Ibidem.

[21] Oggi si osserva qualcosa di simile nel furniture design internazionale, dove una diffusa ed evidente assenza di codici borghesi stimola da un lato la pluralità di utopie e dall’altro il carattere permanentemente sperimentale delle proposte più rivelatrici (si pensi, ad esempio, al collettivo olandese Droog).

[22] Vengono in mente, ad esempio, Italo Rota o Andrea Branzi.

[23] Vengono in mente Teddy Cruz, Rural Studio, Elemental, James Rojas, BAR Architecten, Urban Catalyst, Urban ThinkTank e Interboro, progettisti che possono essere considerati in qualche modo affini all’Everyday Urbanism.

[24] All’interno del Padiglione Italiano nell’11^ Mostra Internazionale di Architettura (Biennale di Venezia 2008), sembrano di questo tipo i progetti di Baukuh, Ian+ e Salottobuono.

[25] Crespi, L. (2013). Da spazio nasce spazio. L’interior design nella trasformazione degli ambienti contemporanei. Milano: Postmedia Books.

[26] Workshop svolto alla Mimar Sinan Güzel Sanatlar Üniversitesi di Istanbul dal 20 al 27 maggio 2013.

Diversity: Design-Humanities - 4th International Forum of Design as a Process

Expanding Interior Design Through Humanities

/Francesco Ruffa

Progettare una casa che non è una casa, ma che aspira ad esserlo un tempo breve rispondendo a un’ampia varietà di esigenze culturali, è una sfida difficile che il design potrebbe affrontare con contributi essenziali dal campo delle humanities. L’articolo vuole spiegare i risultati iniziali di uno studio condotto da un gruppo multidisciplinare di designer, operatori sociali e psicologi ambientali. La ricerca si focalizza sulla qualità dei centri italiani per rifugiati. La natura effimera dell’insediamento nei centri e la varietà delle identità degli abitanti (dovuta alla composizione multietnica) richiede strumenti, processi e conoscenza a partire da un ampio spettro di contesti disciplinari. Come potrebbero il design e le humanities rispondere a diversità culturali nel modo di abitare? Come potrebbe il design comprendere il concetto psicologico-ambientale di luogo-identità [Proshansky,1978] nei luoghi temporanei? Come potrebbe il design, partendo da una condizione sociale di di-stanziamento [Papadopoulus, 2002], ri-stanziare  un nuovo luogo? Partendo dai tre principale elementi dell’abitare – corpi, spazi e oggetti – lo studio ad esplorare come le qualità fisiche degli spazi possano sostenere l’integrazione culturale auspicata nei centri di accoglienza. I tre elementi fondanti dei luoghi sono allargati, con il contributo delle scienze sociali e psicologiche, a un’idea più ampia di ospitalità: corpi & privacy vs spazi collettivi + spazi & attaccamento vs temporaneità + oggetto & personalizzazione vs standardizzazione. Questo approccio ha l’obiettivo di rispondere al bisogno di luogo capaci di includere e aprirsi a diversità culturali. L’articolo analizza un ampio spettro di casi studio di luoghi ospitali e culturalmente aperti, al fine di definire modelli per un interior design caratterizzato da un approccio humanities-centred.

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Designing a home that is not a home, but which aspires to be so for a short time, responding to a wide variety of cultural needs, is a difficult challenge, which design could however tackle with essential contributions from the field of humanities. The paper aims to explain the initial results of a study led by a multi-disciplinary group of designers, social workers and environmental psychologists. The research focuses on the quality of Italian centres for refugees. The ephemeral nature of the settlement in the centres and the variety of identities of the tenants due to their multi-ethnical and multi-identity nature, require tools, processes and knowledge from a wide range of disciplinary contexts. How could design and humanities respond to the cultural diversities implied in this state of living? How could design comprehend the environmental-psychological concept of place-identity [Proshansky,1978] in temporary places? How could design, starting with a social condition of dis-location and dis-placement [Papadopoulus, 2002], re-place a new location, a new place? Starting with the three main elements of living [Canter, 1974; Vitta, 2008] – bodies, spaces and objects – the study aims to explore how space’s physical qualities could enhance the cultural integration that is promoted in reception centres. The places’ three basic elements are expanded into a wider concept of hospitable capability, with the contribution of social and psychological sciences: bodies & privacy vcollective spaces + spaces & attachment vs temporariness + object & personalization vs standardization. This approach aims to answer the need for places which are able to comprehend and open to cultural diversities. The paper surveys a wide range of case studies of hospitable and open-cultural places, in order to outline models for interior design characterized by a humanities-centred approach.

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La rappresentazione dell'interno come visione del mondo

La rappresentazione dell’interno come visione del mondo

/Francesco Ruffa

(Articolo tratto dal libro Verso l’era post-digitale. Disegnare il progetto, tra design e architettura)

È già stato detto[1] che il design degli interni, dal momento che si pone come identità sempre più autonoma rispetto a quella dell’architettura, apre una questione inedita sui suoi sistemi di rappresentazione. E’ specifico della linguistica attribuire ai segni significati riconducibili alle due aree della denotazione e della connotazione. La prima area raggruppa tutti quei significati univoci che si palesano come mimesi della realtà. La seconda, invece, consiste in quella dimensione del segno relativa al codice con cui l’autore compone la rappresentazione e con cui il fruitore la interpreta, in riferimento a un background culturale imprescindibile, non universale.
La rappresentazione, insomma, è fatta di un “cosa” e di un “come”. L’uno e l’altro ne determinano la capacità mimetica da un lato e la ricchezza culturale dall’altro.

Il “cosa”

Dal punto di vista del “cosa”, la rappresentazione di un progetto d’interni si trova di fronte alla sfida di restituire un ampissimo ventaglio di fattori che costituiscono l’intera sfera dell’esperienza ambientale. Per capire lo scarto tra l’esperienza intesa dal design degli interni e il focus percettivo della disciplina architettonica tradizionale, possiamo ricorrere alle parole di Juhani Pallasmaa, architetto finlandese che, scrive Steven Holl, “pratica quell’architettura dei sensi che sfugge all’analisi, le cui proprietà fenomeniche condensano i suoi scritti verso una filosofia dell’architettura”[2]. Pallasmaa assume una posizione critica verso quell’architettura contemporanea così sterilmente visiva e nel suo libro Gli occhi della pelle riconosce il compito dell’arte e dell’architettura e, aggiungiamo noi, del design degli interni, nel “ricostruire l’esperienza di un mondo interiore indifferenziato, in cui noi non siamo meri spettatori, poiché apparteniamo indissolubilmente ad esso. Nelle opere artistiche la comprensione esistenziale sorge dal nostro reale incontro col mondo e col nostro essere-nel-mondo – non è concettualizzata o intellettualizzata”[3]. Vengono inoltre indagate le origini di quello che sembra essere, da Leon Battista Alberti in poi, il dominio della vista, il solo senso a cui guarderebbe una diffusa architettura contemporanea, disinteressata agli altri sensi capaci di fornire all’uomo l’esperienza di essere-nel-mondo. L’occhio dominante si alternerebbe così tra l’essere narcisistico e nichilista: il primo orientato a un’architettura “come mezzo di autoespressione e come un gioco intellettuale-artistico distaccato dalle essenziali connessioni mentali e sociali, [il secondo proiettato verso] il distacco e l’alienazione sensoriale e mentale”[4]. In entrambi i casi si assisterebbe a una riduzione della capacità di provare empatia e partecipazione col mondo.
In definitiva, un design degli interni che tenta di ricostruire l’esperienza di un mondo interiore indifferenziato avrebbe bisogno di forme di rappresentazione capaci di forzare i limiti della visibilità. Servirebbe una rappresentazione capace di produrre odori, un po’ come accade, forse in modo lievemente (e volutamente?) naif, nel padiglione danese allestito quest’anno alla Biennale di Architettura di Venezia e dedicato al futuro della Groenlandia. Dopo essere accolti nella ricostruzione di un interno artico, usciamo in un ipotetico en plein air dove, di fronte alle proiezioni murali di paesaggi ghiacciati, ci investe un acre odore di pesce emanato da stoccafisso appeso in un angolo ad essiccare. Da quell’allestimento emerge la ricerca di un’unità dei sensi che sempre più si fa spazio nel design degli interni. L’esplorazione sinestetica sempre più padrona del progetto sente il bisogno di una rappresentazione piena che oggi le è in parte negata. In attesa che venga inventata una tecnica di rappresentazione capace di imitare le infinite sfumature sensoriali di un ambiente, una possibile risposta sembra risiedere in una interpretazione rizomatica nell’uso degli strumenti rappresentativi, capaci di interagire senza gerarchie e di integrarsi l’un l’altro.
Le maquettes di studio, digitali oppure tradizionali, possiedono una proprietà tattile che consente una più raffinata esplorazione degli aspetti strutturali dello spazio. Forme di rappresentazione proiettive (singole immagini o sequenze video), invece, sembrano più indicate per una precisa investigazione degli aspetti figurativi. E’ certamente vero che il limite disciplinare tra i vari strumenti non è così rigido. Le maquettes, se concepite con attenzione rispetto alle caratteristiche dimensionali e con minuziosi dettagli rispetto alle qualità allestitive e materiali dello spazio, possono diventare un utile strumento per l’indagine figurativa (ancor più se con l’ausilio della macchina fotografica). Allo stesso modo un abile disegnatore potrebbe servirsi di schizzi prospettici per studiare questioni strutturali dell’ambiente progettato.
Tuttavia è importante considerare che i due ordini di strumenti coesistono per due scopi investigativi distinti, che corrispondono a due differenti dimensioni fruitive dell’ambiente costruito.
Walter Benjamin[5] parla di convivenza nell’architettura tra fruizione tattile e ottica. “Le costruzioni”, afferma, “vengono accolte in un duplice modo: attraverso l’uso e attraverso la percezione. O, per meglio dire: in modo tattile e in modo ottico. […] La fruizione tattile non avviene tanto sul piano dell’attenzione quanto su quello dell’abitudine. Nei confronti di quest’ultima determina ampiamente perfino la ricezione ottica. Anch’essa, in sé, ha luogo molto meno in un’attenta osservazione che non in sguardi occasionali”[6]. Benjamin chiarisce che nel corpo dell’opera architettonica convivono tattilità e visibilità e l’una contribuisce alla realizzazione dell’altra.
Attraverso l’idea di un’unità dei sensi che consentirebbe una piena fruizione dell’opera, Benjamin supera l’antica diatriba tra “visibilità” e “tattilità” con cui la filosofia interroga l’opera d’arte dal Settecento in poi, da quando una visione anti-classicista si oppone al carattere “narrativo” della forma[7]. In arte, il dilemma della restituzione di una completa unità dei sensi ha cercato un teso equilibrio in uno strumento che ponesse in movimento la funzione aptica della vista (scultura secondo Herder, colore secondo Deleuze)[8]. In architettura, l’unità dei sensi, ci spiega Benjamin, è intrinseca. L’estetica dell’architettura entra dunque in modo diffuso nella quotidianità, nella vita della massa. Sembra non esservi più alcuna antitesi tra forma e uso e, anzi, proprio il bisogno e l’uso assumono il ruolo di amplificare la ricezione ottica e di conseguenza l’esperienza estetica: “I compiti che in epoche di trapasso storico vengono posti all’apparato percettivo umano, non devono essere assolti per via della mera ottica, cioè della contemplazione, [ma] in base all’addestramento della fruizione tattile, tramite l’abitudine”[9].
Il superamento teorico del dualismo tra tattilità e visibilità, che nel design degli interni contemporaneo si allarga ad un’ancor più ampia unità sinestetica, sostiene ulteriormente la complementarietà di strumenti progettuali che esplorino gli aspetti strutturali, quelli figurativi e, possiamo aggiungere oggi, tutti gli altri elementi sensoriali dell’opera ambientale. Non vi è una risposta definitiva su quali siano questi strumenti. Le tecniche cambiano a una velocità maggiore di quanto sia possibile metabolizzarle e cambieranno ancora. Ma ciò che non può cambiare è l’obiettivo di una rappresentazione multidirezionale dell’opera che, attraverso più strumenti tradizionali o digitali, deve poter essere indagata e comunicata in tutti i sensi della sua fruibilità.

Il “come”

Si potrebbe dire che proprio la densità connotativa rivela la ricchezza culturale di una rappresentazione, capace di andare al di là del “cosa” copiato dal mondo reale e accompagnarlo ad un “come” che rilevi la sua importanza in relazione a noi stessi. Al di là di ciò che imita oggetti reali, la rappresentazione può dunque arricchirsi di significati legati al codice culturale. Può portare con sé un bagaglio di elementi conoscitivi ed emozionali che vanno al di là dell’oggetto in sé.
Molti autori[10] hanno provato ad analizzare le fasi del processo di visione di un’immagine. Seppur con categorie e definizioni diverse, tutti tendono a riconoscere nel processo un graduale passaggio dalla dimensione oggettiva dell’immagine (il “cosa”) a un’interpretazione personale da parte del soggetto (il “come”). Quest’ultimo, dopo aver inglobato l’immagine al suo stato primitivo, ovvero nelle sue linee, nei suoi colori, nelle sue dimensioni, passa successivamente a una ri-costruzione della stessa sulla base della propria esperienza personale, assegnandole attributi, riferimenti, sentimenti, giudizi e così via. Il dialogo tra percezione e pensiero è una questione inevitabile, intrinseca a qualsiasi processo di rappresentazione e visione. E questo dialogo è valido sia per la rappresentazione documentale sia per quella progettuale. Resa da un’immagine anticipatrice, la rappresentazione progettuale restituisce una realtà che ancora non c’è, proiettata nel futuro e legata alle azioni necessarie per renderla possibile. Che la sua funzione sia di ricerca oppure sia di comunicazione, la sfera dei caratteri connotativi e dei loro significati assume un’importanza fondamentale.
In riferimento a ciò, sembrano cruciali due questioni: una legata alla densità dei significati e l’altra alla loro coerenza. In precedenza si è prospettato un’ipotetica puntualità sinestetica di un sistema rappresentativo capace di restituire davvero la visibilità, la tattilità, il suono, l’odore e quanto più possibile della realtà progettata. Eppure un’ampia gamma di messaggi pluri-sensoriali, emozionali, concettuali può essere evocata, seppure in modo limitato, dalla nostra memoria collettiva, dal nostro codice culturale, che può associare a certe immagini altre specifiche categorie non visive. A una maggiore densità di significati evocati attraverso un limitato “cosa”, corrisponde una superiore ricchezza culturale della rappresentazione e certamente, a sua volta, un più raffinato progetto ambientale. Sì, un migliore progetto. Perché la densità di significati di una rappresentazione progettuale e la coerenza tra le rappresentazioni di uno stesso autore testimoniano la presenza di una visione teorica capace di generare un collaudato sistema di messaggi.
Per ciò che riguarda la coerenza  tra sistema di rappresentazione e sistema dei valori, è ancora di grande attualità  il contributo di Erwin Panofsky. Per il quale la vera innovazione della prospettiva centrale rinascimentale è costituita dalla sua capacità di rappresentare un superamento della spazialità di Giotto e di Duccio, “che corrispondeva alle concezioni di transizione dell’alta scolastica”[11], attraverso l’introduzione di uno spazio “infinitamente esteso e organizzato attorno a un punto di vista scelto a piacere”[12]. Con ciò veniva sancita la rottura nei confronti della visione aristotelica del mondo e aperta la strada destinata a introdurre una nuova concezione del mondo “deteologizzata”, fondata su una nozione di infinità “non soltanto prefigurata in Dio ma realizzata di fatto nella realtà empirica”[13]. Si conclude  un lungo percorso iniziato appunto da Giotto e Duccio, che avevano avviato il superamento della visione spaziale medievale e introdotta “un’autentica rivoluzione nella valutazione formale della superficie pittorica: essa non è più la parete o la tavola su cui vengono disposte le forme delle singole cose e figure, ma è tornata a essere il piano trasparente attraverso il quale noi possiamo pensare di guardare in uno spazio aperto per quanto circoscritto in tutte le direzioni; un ‘piano figurativo’ nel senso pregnante della parola”[14]. Tutto ciò mostrerebbe come la prospettiva avesse cessato di costituire un problema tecnico-matematico per diventare soprattutto un problema artistico in stretta relazione con la questione della concezione del mondo e dei valori da essa espressi. Ad un certo punto del suo libro Panofsky introduce la differenza tra il modo di interpretare la prospettiva da parte degli italiani e quello dei pittori del nord Europa. Viene fatto l’’esempio del San Gerolamo dipinto sia da Antonello da Messina sia da Dürer. Mentre il primo rappresenta lo studiolo come se fosse visto dall’esterno e facendo coincidere lo spazio con la superficie del quadro, con ciò introducendo una distanza nei confronti dell’osservatore, il secondo fa quasi entrare l’osservatore nello spazio del quadro stesso, anche grazie alla posizione eccentrica del punto di vista, determinando in tal modo un effetto di “intimità”. Tuttavia “la concezione prospettica, sia che venga valutata e interpretata nel senso della razionalità e dell’obiettivismo, sia piuttosto nel senso della casualità e del soggettivismo, si fonda sulla volontà di costruire lo spazio figurativo (pur astraendo dal ‘dato’ psicofisiologico) a partire dagli elementi e secondo lo schema dello spazio visivo empirico”[15].
Insomma ciò che emerge in modo nitido in questo testo è la stretta relazione esistente tra prospettiva e umanesimo rinascimentale, tra il modo di rappresentare lo spazio e la concezione stessa del mondo. Parallelamente, come ci fa notare Luigi Cocchiarella[16], sarebbe difficile immaginare le proiezioni ortogonali al di fuori dell’Illuminismo, oppure le proiezioni assonometriche in posizione disgiunta dalla cultura positivista del XIX secolo. E ciò perché “«le forme di rappresentazione» non si esauriscono nei meri metodi esecutivi del disegno, ma si legano indissolubilmente alle sensibilità culturali in seno alle quali si sono sviluppate e vengono impiegate”[17].
Anche se l’indagine di Panofsky si concentra sulla rappresentazione nell’ambito della pittura, non manca di avere un interesse particolare anche nei confronti di una riflessione sul tema della rappresentazione del progetto. Ciò che oggi appare come un problema disciplinare, vale a dire lo scarto tra il potenziale costituito, nei modi di rappresentazione del progetto, dalle tecnologie digitali e la loro incapacità di restituire le differenze degli stili di pensiero del progettista, in realtà è il riflesso di un problema ben più generale e profondo. Rappresentato dalla mancanza di un sistema culturale di riferimento, a seguito dell’esaurirsi di quello fondato sul dominio della tecnologia inteso come “potere di disposizione della tecnica”[18] e che ha prodotto l’affermazione in tutto l’Occidente del pensiero calcolante, istituendo una sorta di ”impero del razionale”[19]. Eppure in molti ambiti del pensiero e della cultura non mancano i segnali che testimoniano il fatto che ci si trovi di fronte ad una svolta della storia, destinata ad introdurre cambiamenti probabilmente della stessa portata di quelli che, per Panofsky, hanno dischiuso per l’arte religiosa una regione completamente nuova.  Basti pensare, solo per fare alcuni esempi, alle riflessioni avvenute all’interno del mondo scientifico, che hanno portato a sostituire ad una scienza predittiva e sperimentale una scienza qualitativa ed ermeneutica, rinunciando ad un programma di dominio integrale sulle realtà a cui è applicata a favore di modelli di razionalità debole,fondati sulla reversibilità dei processi e sulla possibilità di ammettere l’irruzione del caso[20]. Oppure ai contributi in filosofia di Paul Virilio, sulla dromologia e i pericoli della tecnologia contemporanea connessi all’incidente come fenomeno inopinato[21] e di Jean-Luc Nancy sulla città come “luogo in cui ha luogo qualcosa di diverso dal luogo” e in cui l’uomo abita en passant[22].  In antropologia di Marc Augé, sulla comparsa di un nuovo paradosso rappresentato da una diversa percezione dello spazio-tempo destinato a sancire la perennità del presente[23]. In economia di Serge Latouche sul tempo della décroissence, come riscoperta  della società della frugalità per scelta, al fine di “imparare nuovamente ad abitare il mondo e, quindi, affrancarsi dalla dipendenza dal lavoro per ritrovare la lentezza, riscoprire i sapori della vita legati ai territori, alla prossimità e l prossimo”[24] o di Gilles Finchelstein, sulla dittatura dell’urgenza e la necessità di opporvisi attraverso la riscoperta della lenteur e la pratica del Perdre du temps[25]. Frammenti di una nuova concezione del mondo che aprono sguardi sullo spazio che abitiamo e sulle sue diverse connotazioni. Uno spazio indicibile, aleatorio, reversibile, “ineffabile”, profondo,”deformato”[26], privo di confini stabili, in cui privato e pubblico coesistono e l’interno diventa come un esterno, uno spazio che richiede alla cultura del progetto e alle scuole che contribuiscono a formarla una riflessione adeguata sui suoi modi di rappresentazione. Non sembra un compito facile, se si pensa come già Bruno Zevi, nel suo memorabile Saper vedere l’architettura[27], avverta che il ”problema della rappresentazione dello spazio, lungi dall’essere risolto, non è nemmeno impostato”.

[1] Cfr. Luciano Crespi, Spazio e disegno, in  Michela Rossi e altri, Il disegno come ricerca. Strumenti grafici e modelli rappresentativi per il progetto, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2012

[2] Steven Holl, Prefazione: Ghiaccio sottile, in Juhani Pallasmaa, Gli occhi della pelle. L’architettura e i sensi, Jaka Book, Milano 2007, p. 8 (ed. originale 2005)

[3] Juhani Pallasmaa, Gli occhi della pelle. L’architettura e i sensi, Jaka Book, Milano 2007, p. 36 (ed. originale 2005)

[4] Ibidem, pp. 32-33

[5] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2011 (ed. originale 1936)

[6] Ibidem, pp. 34-35.

[7] Cfr. Elio Franzini, Art and body. A philosophical perspective, Leitmotiv – Motivi di estetica e di filosofia nelle arti, n.0/2010, 27-49.

[8] Ivi

[9] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 35.

[10] Cfr. Luigi Cocchiarella. Fra Disegno e Design. Temi, forme, codici, esperienze, CittàStudi, Novara 2009

[11] Erwin Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”, Abscondita, Milano 2007, p.45 (ed. originale 1927)

[12] Ivi

[13] Ibidem, p.46

[14] Ibidem, p.37

[15] Ibidem, p.53

[16] Cfr. Luigi Cocchiarella. Fra Disegno e Design. Temi, forme, codici, esperienze, cit., p. 77

[17] Ivi

[18] Cfr. Jurgen Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Roma-Bari 1978

[19] Cfr. Serge Latouche, La sfida di minerva, Bollati Boringhieri, Torino 2000

[20] Cfr. Gianluca Bocchi , Mauro Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano 2007

[21] Cfr. Paul Virilio, Città panico, Raffaello Cortina, Milano 2004

[22] Cfr. Jean-Luc Nancy, la città lontana, Ombre corte, verona 2002

[23] Cfr. Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro?, elèuthera, Milano 2009

[24] Cfr. Serge Latouche, Didier Harpagès, Il tempo della decrescita, elèuthera, Milano 2011

[25] Cfr. Gilles Finchelstein, La dicature de l’urgence, Fayard, Paris 2011

[26] Cfr. Antony Vidler, La deformazione dello spazio, postmedia books, Milano 2009

[27] Cfr. Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino, prima ed. “Saggi”1948

10^ Conferenza della European Academy of Design

User Requirements in the Design of European Affordable Housing

/Francesco Ruffa

L’articolo mette in luce come il processo di conoscenza dell’utente sia complesso e ancora incompletp nell’ambito dell’abitare economico europeo. Sebbene la domanda sia molto più dinamica dell’offerta, è stata condotta più ricerca di mercato sullo stock abitativo esistente che sui modelli comportamentali/culturali. Inoltre, c’è una mancanza di ricerca di design capace di generare input progettuali innovativi. Il significato di questo articolo sta nella proposta di una sistematizzazione dell’indagine sulle esigenze dell’utente. Nel campo dell’abitare economico, c’è ancora un diffuso approccio top-down che affida ai progettisti un’analisi intuitiva dei bisogni. Questo articolo suggerisce che i sistemi locali europei dovrebbero dotarsi innanzitutto di ricerca di mercato concentrata su modelli comportamentali/culturali e in secondo luogo di ricerca di design condotta da professionisti research-oriented.
Il paper si focalizza su alcuni metodi di ricerca che potrebbero essere usati dai ricercatori durante la loro indagine sulle necessità degli utenti. I risultati di tale ricerca sarebbero il punto di partenza per pratiche progettuali individuali, che così sarebbero basati su fondamenti più solidi e dettagliati.

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The paper highlights how the knowledge of users is complex and still defective in the area of European affordable housing. Although demand is far more changeable than supply, more market research has been carried out on existing housing stock than on behavioral/cultural models. Furthermore, there is a lack of design research capable of generating innovative design inputs.
The significance of this article lies in proposing a systematization of the detection of user requirements. In the field of affordable housing, there is still a widespread traditional top-down approach which assigns designers with an external intuitive analysis of user requirements. This paper suggests that the European local systems should equip themselves firstly with housing market research concentrated on behavioral/cultural models and secondly with design research conducted by research-oriented professionals.
The paper focuses on some research methods which could be used by design researchers during their inquiry into user requirements. The results of such research would be the starting points for individual design practices which would be based upon solider and more detailed research foundations.

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Soluzione residenziale alternativa all’alloggio convenzionale per il superamento dei campi nomadi di Genova

Soluzione residenziale alternativa all’alloggio convenzionale per il superamento dei campi nomadi di Genova

/Francesco Ruffa

La tesi affronta le possibilità di superamento dei campi nomadi di Genova e l’elaborazione di una soluzione architettonica alternativa agli appartamenti convenzionali.

Il corpo della tesi si presenta al lettore in tre parti.

Nella prima osserviamo l’impopolarità dell’argomento: da un lato evidenziamo il legame tra il pregiudizio e la scarsa conoscenza, dall’altro comprendiamo la necessità di un intervento sociale “poco invasivo”. Vediamo poi a quali gruppi zingari si rivolge la nostra attenzione, cosa spinge a superare i campi nomadi con una proposta residenziale permanente, quali tentativi si sono fatti finora e quali risultati hanno prodotto.

Nella seconda parte rileviamo elementi d’interesse che, oltre a quelli più comuni e scontati, è utile considerare nell’elaborazione di una proposta residenziale. Osserviamo aspetti diffusi sotto il profilo della concezione dello spazio e del costume abitativo, e dedichiamo un’ampia riflessione alle attenzioni necessarie verso popolazioni composte da una forte maggioranza di bambini e di donne socialmente sradicate. Indichiamo poi alcuni criteri per la scelta di aree idonee a interventi di questo tipo, e formuliamo considerazioni progettuali sulla base delle riflessioni svolte.

La terza parte (che trova la sua migliore collocazione nelle tavole di approfondimento) contiene un esempio pratico di intervento. Analizziamo alcune aree sul territorio comunale genovese e ne scegliamo una nel quartiere di Cornigliano.
Disegniamo dunque un progetto che va ben oltre i confini dello spazio destinato alle residenze alternative: s’immagina un nuovo angolo di città in cui trovano spazio un complesso residenziale per anziani, locali destinati a progetti sociali e servizi pubblici, un bar, una scuola, un supermercato, un nuovo edificio “a torre” per appartamenti, attrezzature sportive e soprattutto spazi aperti che vogliono replicare non tanto l’idea del parco quanto quella del cortile, fruibile dal vicinato di tutte le età.
Il progetto è inteso a vari livelli di scala: quello urbano, quello globale dell’area, quello del nucleo di residenze alternative e quello della singola unità abitativa.

È interessante rilevare che la ricerca di condizioni ambientali idonee per famiglie di etnia zingara rappresenta una valida occasione per soluzioni di social housing favorevoli anche alla popolazione maggioritaria: a dispetto di vincoli di basso costo e parziale produzione standardizzata, si prova a evitare serialità e omologazione edilizia, a favorire condizioni di vicinato sulla “giusta distanza”, ad assegnare un significato ad ogni spazio comune evitando che si trasformi in spazio residuale.